Collateral Beauty

In queste ultime settimane ho visto diversi film che non ho commentato. “Rouge One”, moto bello ma difficile da recensire senza fare spoiler. “La Cena di Natale”, graziosa commedia all’italiana seguito di “Io Che Amo Solo Te” romantica storia di amori ben confezionata ma con pochi spunti di riflessione.

Ieri sera mi è capitato di vedere, un po’ per caso, “Collateral Beauty” con Will Smith e Keira Knightley, due ottimi motivi per lasciarsi portare al cinema.

La storia è costruita attorno un lutto. Howard, un genitore ricco e di successo che nel suo lavoro di pubblicitario ha come punti di riferimento l’amore, il tempo e la morte, interrompe la sua vita con la morte della giovane figlia a casa di un tumore.

La narrazione è quella dei due migliori amici e soci in affari del protagonista interpretati da una bellissima Kate Winslet e da un dignitoso Edward Norton che mettono in scena con l’aiuto di tre sedicenti attori interpretati da Helen Mirren, e che ne parliamo a fare, Keira Knightley ed uno a me sconosciuto Jacob Latimore, uno stratagemma per dimostrare l’instabilità mentale dell’amico e riuscire a vendere a caro prezzo l’azienda da loro creata e che, proprio a causa dell’assenza di Howard, rischia il fallimento.

Il palcoscenico della storia è una classica, bellissima e già vista molte altre volte New York illuminata dalle luci di Natale.

In sintesi la prima metà del film scorre bene, la storia c’è e cattura lo spettatore, riesce ad incuriosire. Il problema è, a mio parere, che nella seconda parte diventa di una banalità sconcertante fino al finale che cita “Il Cielo Sopra Berlino” di Wenders (1987) o peggio “City Og Angels” (1998) ultimo lavoro decente di Meg Ryan. Di più non voglio dire per non levarvi il gusto di qualche inaspettata sorpresa che pure la trama offre.

Un’altra pecca della narrazione è che il tema centrale, quello della bellezza collaterale, viene accennato senza essere approfondito. In sintesi la questione è che bisogna esser felici per quello che si ha o per quello che si è avuto senza rammaricarsi troppo per le cose perse ? Il tema è appena sfiorato tanto poi da perdersi completamente nel tarallucci e vino del finale.

E’ una storia che vuol raccontare di amore, tempo e morte. Senza voler arrivare alla dolorosa meticolosità di Muccino in Sette Anime, anche meravigliosamente interpretato da Will Smith, si poteva fare meglio. Mi viene in mente che è la perfetta sintesi della differenza tra il cinema italiano/europeo e quello americano. Poca scrittura e tanta messa in scena anche quando si tratta di rappresentare sentimenti difficili e profondi. Ma, d’altro canto, c’era da aspettarselo. Sarebbe bastato andare a scorrere il curricula del regista David Frankel, cresciuto dirigendo diverse puntate di Sex & The City fino a raggiungere l’apice della carriera con “Il Diavolo Veste Prada”.

Alla pellicola resta il merito di riuscire a reggere la narrazione, il minimo sindacale, senza annoiare lo spettatore che forse ne resta anche commosso. Peccato per il finale, bastava poco a farlo più interessante. D’altro canto “Rogue One” insegna, il miglior finale è quando muoiono tutti. Due stelle su cinque.

 

 

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