Un amaro veleno

La missione di un autore dovrebbe essere sempre quella della ricerca di territori inesplorati. Credo che questa sia ancor più importante, quando si mettono in scena narrazioni ambientate in contesti che sono già fortemente presenti nell’immaginario del pubblico.

Veleno è un bel film: forte, toccante, intenso. E’ un pugno nello stomaco, è una storia di legami familiari, di amore e morte. E’ una storia di vita ai margini e delle scelte che questa condizione costringe a fare. E’ un “romanzo criminale”, un film di denuncia, una pellicola realista ed, al tempo stesso, surreale.

Veleno è un brutto film: che non crede fino in fondo nelle sue potenzialità e cerca, con una serie di trucchetti e ammiccamenti, di assicurarsi un buon riscontro al botteghino.

La storia si svolge nella terra dei fuochi. Ci sono i nativi, che vogliono allevare le loro mandrie di bufale sulla terra ricevuta dai loro padri e i cattivi che li vogliono cacciar via per far soldi. C’è la coppia dei buoni, quella che vuole coronare il proprio progetto familiare vivendo onestamente e la coppia che si lascia sedurre dalle sirene dei facili guadagni. C’è il tema della maternità e quello del destino che improvvisamente arriva e, senza una plausibile spiegazione, ti priva di tutto. Ci sono bambini in bicicletta che sembrano usciti da Stand By Me (Rob Reiner 1986 n.d.r.) e c’è l’orco cattivo. C’è una storia di fede e coraggio tutta scolpita nella magnifica recitazione di Luisa Ranieri e Massimiliano Gallo. C’è una storia di pentimento e ricerca della redenzione.

Il problema del film è che, nonostante l’enormità del materiale narrativo che ha a disposizione, non vola oltre gli stereotipi e si accontenta di animare la narrazione su di un palcoscenico già visto e sfruttato. La terra dei fuochi è quella di “Gomorra”, film e serie tv, già vista anche in “Indivisibili” (Edoardo De Angelis 2016 n.d.r.). Affidare la parte del camorristucolo di turno, bel personaggio, perennemente in bilico tra voglia di ricatto e dura realtà, al volto di Salvatore Esposito è stata, nella mia opinione, una inutile concessione al marketing. La recitazione non è particolarmente brillante e il viso porta inevitabilmente la memoria dello spettatore a Genny Savastano. Ancora: scene di sesso e degrado didascaliche quanto inutili, scene di ordinaria malavita in bilico tra citazione e macchietta, personaggi collaterali che sembrano essere presi in prestito da altre produzioni,

Se metto sul piatto della bilancia i pro ed i contro della pellicola, devo dirlo, vincono decisamente i pro. Alla fine la storia riesce a tenere viva l’attenzione dello spettatore e l’intensissimo finale affidato a Luisa Ranieri è un piccolo capolavoro. Fortunatamente Olivares scansa il trappolone del finale onirico e surreale alla Sorrentino e resta sul concreto con tanto di colpo di scena, rivelazione finale e sguardo al futuro. Il perché abbia ammiccato tanto al pubblico di genere resta, per me, un vero mistero.

Vabbè: tre stelle su cinque, ma solo per mancanza di coraggio produttivo.

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