Il sapore della sostanza

Sarà sicuramente colpa mia che non riesco a lasciarmi andare, quando le premesse sono troppo sfavillanti mi insospettisco e comincio a cercar tracce di sostanza buttando l’occhio oltre la siepe. Oggi mi è accaduto ancora una volta.

Qualche tempo fa per esser considerati uomini e donne di mondo bisognava essere in grado di dissertar di vini. Bianchi, rossi, spumanti, delle langhe, siciliani, campani. Il bianco con il pesce il rosso con la carne. Poi in tv sono arrivati i cuochi e siamo diventati tutti chef stellati, anzi, per meglio dire, siamo diventati tutti consumatori a cinque stelle. Alcuni ristoratori hanno capito la tendenza e hanno cavalcato l’onda, vecchie trattorie si sono rifatti il maquillage, i menù sono diventati più ricchi, si è cominciato a dare evidenza alla qualità dei prodotti, alla loro provenienza ed al modo di servirli in tavola.

Lo dico subito, credo che la cucina non abbia nulla a che fare con l’arte. Dice bene Carlo Cracco: il cliente si siede, mangia, e dopo cinque minuti se lo è già dimenticato. Chi vuol vendere la cucina come una forma d’arte vende fuffa. Tuttavia, siamo sicuramente tutti d’accordo se dico che mangiar bene è una esperienza piacevole. A tutti piace assaggiare sapori gustosi, sperimentare nuovi accostamenti di cibi, mangiar cose genuine preparate dalle sapienti mani di gente che ha ha fatto della cucina una professione. Sempre più persone si cimentano tra le mura domestiche, magari in compagnia di amici, a sperimentare ricette e preparazioni. I più fighetti prestano particolare occhio agli impiattamenti ed alla presentazione della tavola. Niente di male in questo, sia chiaro, cucinare è una attività piacevole e creativa e stare a tavola in buona compagnia (ma magari anche da soli n.d.r.) mangiando buone pietanze è cosa buona.

Quando poi si va a cena fuori casa, è piacevole andare alla ricerca di cose nuove, sapori non usuali, cucine mai praticate. Molti ristoratori questa rinnovata attenzione dei consumatori ai piaceri della tavola l’hanno capita da tempo ed in tanti cercano di offrire prodotti all’altezza delle aspettative di potenziali clienti.

Il problema, a mio parere, sta nel fatto che spesso capita di finire in ristoranti bellissimi da vedere e dotati di ogni comodità e servizio che, però, mancano dell’ingrediente fondamentale: lo chef.

Oggi mi è capitato. Mattinata frenetica, cento impegni e mille imprevisti. E’ un attimo ed eccoci giunti all’ora del pranzo della domenica. Il pranzo della domenica a Napoli è un rito, un inno ai sapori, una funzione pagana di cui le mamme e le nonne, nella tradizione, sono le sacerdotesse e le vestali.

Decidiamo di fermarci in un ristorante/pizzeria nella zona alta della città. Si presenta bene e deve essere rinomato perché appena entrati veniamo informati che i tavoli apparentemente liberi sono in realtà tutti prenotati. Ma siamo solo in due ed un solerte cameriere riesce a trovarci un tavolino. I nostri desideri di pizza vengono subito spenti, la domenica a pranzo il forno non si accende. Decidiamo quindi per un po’ di antipastini tradizionali ed un primo. C’è una classica genovese, una pasta e fagioli alla pescatora ma la signora che è con me non gradisce il sapori del mare. La nostra attenzione si lascia catturare dalle orecchiette con vongole e taralli e, detto fatto, la comanda parte.

Il ristorante ha una ambientazione molto rustico-chic. Pareti di mattoni o boiserie in legno, tutto è scenografico alla perfezione. C’è la parete piena di padelle e pentolami antichi, tovaglie e stoviglie di prima qualità. Mi portano un calice di vino rosso leggermente frizzante versato da una bottiglia senza alcuna etichetta. L’acqua sul tavolo è quella della fontana. Antipasti, che dovrebbero essere per uno, abbondanti. Una mozzarellina da dividere in due poi tutti i classici della friggitoria napoletana. Una terrina di fagioli. Tutto molto buono e ben presentato. La frittura è servita sulla versione ridotta dei grandi vassoi di alluminio bucherellati che si usano nelle friggitorie che consentono all’olio in eccesso di scivolar via, poi ci sono le ciotole in terracotta ed i piatti di porcellana bianca. Ogni pietanza è guarnita da odori e ben presentata. Il cestino del pane è spettacolare, pezzi di pizzette, pani conditi, un pezzo di casatiello, pane bianco ed un pane dalla mollica verde che sa di pesto alla genovese. Ormai siamo parte del rito collettivo del pranzo domenicale, i tavoli si sono riempiti tutti e qualche avventore viene garbatamente invitato ad aspettare almeno trenta minuti per aver un tavolo.

La presentazione del primo è spettacolare. Ci mettono sul tavolo prima un mestolo e poi un intrigante fagotto. Un canovaccio annodato nasconde una pentola in alluminio di quelle che si usavano una volta e sotto il coperchio le orecchiette con le vongole e con pezzetti di taralli sugna e pepe. Ci riempiamo i piatti, il giochino è carino assai, alla faccia dei maghi dell’impiattamento, l’idea di proporre un viaggio nella tradizione anche attraverso pentolate e gesti è bella.

Mi preparo bevendo un sorso di vino e mando giù il primo boccone. C’è qualche cosa che non mi torna, ne mangio ancora cercando di prender nel cucchiaio tutti gli ingredienti nel piatto. Niente, la ricetta è bella ma non vuol ballare. I sapori sono da supermercato, il gusto delle vongole e tenue e slegato da quello dalla pasta. I pezzetti di tarallo che dovrebbero conferire una certa forza al piatto sono li per conto loro. Lo chef non si è applicato più di tanto a mettere insieme i sapori, non si è preoccupato di soddisfare l’aspettativa creata dal tarallo nell’immaginazione dei suoi commensali. In pochi bocconi la magia creata dalla scenografia del luogo, dalla coreografia della presentazione, crolla e sono in una trattoria qualunque, buona da mangiarci una cosa al volo senza tante pretese. Ci offrono un caffè, paghiamo poco meno di 20 euro a testa, ed andiamo via, incontro ad un pomeriggio spompo di domenica, senza nessun buon sapore in bocca a farci compagnia.

Forse abbiamo beccato noi il piatto sbagliato, forse era meglio la genovese. Penso agli altri avventori. Usciranno con la mia stessa sensazione o saranno contenti di aver passato un paio d’ore in buona compagnia, in un posto sicuramente accogliente e caratteristico, giocando con mestole e coperchi proprio come faceva la nonna ed ora si vede fare in tv ? Non è che sia un esperto di cucina e non mi sogno neanche lontanamente di scrivere una recensione di un ristorante o di una ricetta, so solo che la sostanza non è stata all’altezza delle aspettative. Magari era meglio allestire una sala più classica ed investire più risorse una brigata di cucina più all’altezza della situazione, una selezione di materie prime più accurata, uno chef più attento a mantenere le promesse fatte nel menù. Avrei pagato volentieri anche qualche euro in più per poter conservare per cinque minuti il ricordo di un buon piatto.

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