Pat Metheny per tutti

Lo dico subito, il mio primo contatto con Pat Metheny fu nel negozio di Gianni Cesarini a largo Celebrano a Napoli. Curiosavo tra le vasche dei 33 giri compilano mentalmente ipotetiche liste di dischi che avrei voluto acquistare mentre nell’aria qualcuno diffondeva le note di Are You Going With Me. Fu amore a prima nota, di li a poco acquistai il doppio Travels e, il 12 marzo del 1988, ci fu il primo contatto live. Era il tour di Still Life (Talking) e, diciamoci la verità, se non fosse stato per il passaggio a D.O.C., il noto programma musicale di Renzo Arbore di quel periodo, saremmo rimasti in pochi ad apprezzare il chitarrista con tanti capelli, che indossa quasi sempre una maglia a strisce e che suona un sacco la chitarra.

Quello di ieri sera al Teatro Augusteo di Napoli è stato il nostro contatto numero sette. Formazione a quartetto, da subito, mi ha dato l’impressione di di essere una edizione light del Pat Metheny Group. Dopo una breve introduzione con la nota chitarra Pikasso il nostro avvia una bella rappresentazione della sua musica degli ultimi 35 anni (il primo disco è del ’75 e lui è della classe 1954 n.d.r.). Accanto a lui Antonio Sanchez, tra i suoi batteristi storici e due ragazzi a me sconosciuti, il pianista inglese Gwilym Simcock, classe 1981, e la giovanissima Linda Oh, australiana di origine malese, classe 1984,  al contrabbasso.

Prima osservazione: Antonio Sanchez non si discute ma i due talentuosissimi ragazzini non è che, in questo contesto, dicano più di tanto. Gwilym non brilla quasi mai e fa rimpiangere, senza averne colpa, Lyle Mays. Per esempio, la versione per sola chitarra di Are You Going With Me, eliminata la lunga intro di tastiere che prepara l’atmosfera al lungo ed epico solo di chitarra synth che ha contribuito a rendere famoso Pat, resta deludente. Gwilym neanche ci prova ad entrare in partita. Linda, dal canto suo, fa la sua porca figura ma non dice niente di particolare messa in ombra da un pur generoso zio Pat che gli concede ampi spazi. Perdonatemi ma, considerato che l’ultima volta che ho visto Pat Metheny, all’arena Flegrea, al basso c’era Richard Bona, un po’ di malinconia mi viene.

Alla fine del concerto mi sono avvicinato al palco e, con un po’ di faccia tosta, ho chiesto ad un dei tizi che stavano sorvegliando le sacre chitarre di regalarmi una scaletta che era rimasta abbandonata tra cavi e amplificatori. Volevo avere una traccia di quello cha avevo sentito per cercarne meglio il senso. L’ho guardata a lungo ed alla fine sono giunto ad una, personalissima, conclusione: ascoltare Pat Metheny e, soprattutto, vederlo suonare, è sempre una bella esperienza ma, questa è stata una cosa un po’ povera di sapore. C’era la stella, c’era la storia, mancava tutto il resto. Non è stato un concerto jazz tipo quello che ho visto a Milano nel ’90 con Herbie Hancock, Dave Holland e Jack DeJohnette. Non ho sentito la verve del Pat Metheny Group e non ho anche sentito il Metheny più tosto, quando si mette in trio, in duo o da solo a scrivere pagine memorabili. Questo tour, alla fine è una cosa tipo “Pat Metheny per principianti”.

La cosa, a mio parere, più bella del concerto è arrivato all’inizio dell’immancabile “encore”, quando Patrick Bruce “Pat” Metheny si è messo seduto comodo, con la sua chitarrona con le corde in nylon, ed ha iniziato ad esporre il tema di Minuano 6/8 per poi trasformare il pezzo in un medley di sue melodie tra cui, mi è parso di riconoscere, un bellissimo pezzetto di This Is Not America.

Il concerto di ieri rimarrà nella memoria come quella volta che ho sentito Pat in versione intima/unplugged/leggera. Un spettacolo meravigliosamente retto da una pietra miliare della musica contemporanea, uno dei migliori batteristi che ci siano in giro e due virtuosi ragazzi che, prima o poi, si faranno.

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