Le mie fotografie (parte 1@).

CanonScatto fotografie da oltre 40 anni. Le prime le ho scattate con una Diana, una macchinetta tutta di plastica azzurra e nera con uno strano flash che funzionava con delle lampadine monouso. Avevo sicuramente meno di 8 anni, non lo sapevo ma stavo usando una macchina lomografica, “punta e scatta” diremmo oggi, arrivata in casa portata dall’estero da non ricordo più quale zio. All’epoca era per me poco più di un giocattolo con il quale imitare papà che faceva fotografie con la macchina fotografica buona, quella che non mi era consentito toccare, quella che stava nell’armadio della camera da letto dei genitori avvolta dalla sua custodia di cuoio e che veniva tirata fuori solo per le grandi occasioni.

La piccola scatoletta azzurra durò poco, un paio di rullini e finì nel cesto con gli altri giocattoli. La macchina fotografica di papà continuava ad essere irraggiungibile ma il virus della fotografia era ormai dentro la mia testa. Erano gli anni ’70, l’evo analogico, c’erano le Nikon e le Canon 35mm, ai matrimoni dei parenti vedevo delle strane macchine fotografiche con dei grandi rullini rosa, uno zio che si vantava di essere un fotografo, anche se ho sempre saputo che lavorava all’ufficio postale del quartiere, aveva una Rolleiflex con due obbiettivi e un mirino a pozzetto. A me toccò, in occasione della prima comunione, una Kodak Instamatic, scatola di cartone giallo con strisce rosse,  che montava dei rullini che erano inseriti, allo scopo di facilitarne l’inserimento nella macchina fotografica, in una cartuccia di plastica. Mi era concesso ogni tanto un rullino in bianco e nero, magari in occasione di una gita scolastica o qualche altro evento familiare. Risultati piuttosto scadenti rispetto alle fotografie che facevano gli adulti con le loro macchine importanti. Mi piacevano molto i flash a cubetto, ogni cubetto permetteva di fare quattro scatti.

Con l’adolescenza mi fu finalmente concesso di accedere alla macchina fotografica, quella buona, una Voigtlander 35 millimetri, completamente manuale. Sempre guardato a vista da papà mi toccava impostare la sensibilità della pellicola, valutare la luce e scegliere opportunamente la velocità dell’otturatore e l’apertura del diaframma. Più l’otturatore era chiuso, più ottenevo profondità di campo. Più era lento il tempo di scatto più probabile era che la foto sarebbe venuta mossa. L’esposimetro era un oggetto misterioso ed inarrivabile.
Esauriti gli scatti, i rullini venivano presi in consegna da papà che si occupava di portarli al negozio di foto-ottica Salmoiraghi  di piazza Vanvitelli per lo sviluppo e la stampa. Passavano alcune settimane e poi era festa. Papà tornava a casa dal lavoro con una bustina tra le mani. All’interno le fotografie e, avvolti in una stana carta translucida, le striscette dei negativi. Prima le guardava lui con la mamma, poi passavano a noi figli. La prima operazione era sempre lo scarto di quelle brutte o venute male da quelle belle. Le brutte erano scartate o a causa di un errore di esposizione, di fuoco o perché erano mosse o il soggetto era stato colto con gli occhi chiusi o con qualche espressione del viso strana. Poi, dopo lo scarto e la selezione, le belle fotografie venivano messe a disposizione del resto della famiglia, parenti, amici e vicini di casa. Per ogni rullino c’era sempre almeno una fotografia particolarmente bella che accendeva i cori di approvazione del pubblico più delle altre. La bustina con le fotografie rimaneva in giro per casa per qualche settimana, al massimo qualcuna poteva essere pubblicata sulla porta del frigorifero, poi veniva riposta nella libreria del salotto nel cassetto delle fotografie.

 A volte capitava, doveva essere un giorno di festa o un giorno in cui eravamo al letto con la febbre, che papà apriva il cassetto delle fotografie e le guardavamo tutti insieme. Guardavamo anche le diapositive. Papà usava spesso scattare con la pellicola per diapositive invece che quella comune per negativi, la motivazione ufficiale era che i colori erano molto più belli e che era più bello guardarle proiettate sulla parete del salotto che veniva appositamente attrezzata con un lenzuolo bianco. Molti anni dopo avrei seguito anche io la scuola paterna scattando quasi esclusivamente diapositive, aggiungendo la motivazione che le stampe fatte dalle diapositive, anche se costavano di più, erano molto più belle.

Nuovi orizzonti mi si aprirono quando un amico di famiglia portò a casa tutto il necessario per sviluppare i negativi e stampare le fotografie in bianco e nero in casa. C’era una tanica dentro la quale si metteva la pellicola avvolgendola su una spirale, c’erano le bottiglie con gli acidi di sviluppo e di fissaggio, c’era la carta fotosensibile ed il mitico ingranditore Durst F30. C’era la magica lampadina rossa che conferiva all’unico bagno di casa la livrea di camera oscura delle meraviglie. Anche l’accesso alla camera oscura fu guadagnato con una lunga gavetta, prima i grandi e poi i piccoli. In camera oscura scoprii il bianco e nero e soprattutto imparai che dopo lo scatto era possibile intervenire sul risultato finale con altre tecniche, al limite anche con un pennarello direttamente sul negativo.

Mancavano almeno dieci anni all’introduzione sul mercato del processore a 8 bit Z80, almeno quindici all’introduzione del primo Intel 8088 e dei personal computer ed il Photoshop non era possibile neanche ad immaginarlo. I televisori avevano ancora il tubo catodico da poco diventato a colori, i telefoni il filo e per fare amicizia con degli estranei e fare conversazioni fino a notte fonda si doveva mettere un antenna sul tetto di casa per intercettare la banda cittadina con il baracchino, una radiotrasmittente a bassa potenza che si poteva usare solo dietro autorizzazione del ministero delle telecomunicazioni. Il temine chat ancora era chiuso nel vocabolario d’inglese.

Per un po’ le cose sono andate avanti così, per tutto il periodo della scuola e gli inizi dell’università la fotografia fu per me una passione senza una estetica. Si trattava, più che altro, di produrre belle istantanee, di immortalare ricordi.  Erano gli anni in cui la passione per la musica mise in secondo piano qualsiasi altra cosa, la chitarra era la mia unica fede.

Ma le cose cambiano quando meno te lo aspetti. Fu un attimo lasciare l’università e cambiare città per cominciare a lavorare sul serio. A Milano cominciai a produrre i miei primi guadagni e non potendo più coltivare la passione della musica, amici e strumenti erano rimasti a casa, tornò a riproporsi la passione per la fotografia. Anni ’90, furono gli anni della prima reflex e dei primi obiettivi. Una Yaschica manuale ma dotata di esposimetro ad ago che si intravedeva ne mirino, un 50 mm. Poi un 35, ed uno zoom, forse un 70/200. Iniziai a pormi il problema di cosa fotografare, giravo per ore la città in cerca di soggetti interessanti, poi presi a spostarmi. Bologna, Firenze, Reggio Emilia, Mantova, erano tutte mete raggiungibili in un fine settimana. Luoghi d’arte, chiese, monumenti, ritratti rubati per strada appostato come un cecchino. In quegli anni Milano era la capitale della moda, intorno al castello sforzesco c’erano le più importanti agenzie di moda ed era facile incrociare per strada modelle e fotografi o imbattersi in set fotografici allestiti in galleria, sui navigli o nei luoghi più belli della città. Era facile far correre la fantasia ed immaginarsi tutto il possibile. C’era tutto un mondo che si apriva davanti ai miei occhi. Da musicista quale ero incominciai a sperimentare le foto ai concerti. Iniziai ad adoperare pellicole ad alta sensibilità, duplicatori di focale per cercare di stare sempre più vicino al palco, a padroneggiare le prime tecniche analogiche per ottenere esposizioni corrette e cogliere il momento magico dell’esibizione. Era usuale che per conquistare un luogo strategico vicino al palco mi presentassi ai cancelli ore ed ore prima dell’evento.

La fotografia era anche un buon metodo per conoscere persone ed attaccar bottone con le ragazze. Mai conosciuta una donna alla quale non faccia piacere posare per un bel ritratto. Spesso fanno di tutto per far credere il contrario ma non ci ho mai creduto. Concerti, feste, gite fuori porta, al vecchia Yaschica era sempre al mio fianco ed i risultati iniziarono a migliorare. Ritratti, panorami, reportage, still life, fotografia industriale, niente era rimasto inesplorato. Alla fine di questo percorso mi azzardai pure a fare un paio di matrimoni. Ormai per tutti gli amici ed i conoscenti Alessandro era il fotografo al quale si poteva chiedere di immortalare tutte le occasioni particolarmente importanti di una vita.

Poi, e siamo alla fine degli anni ’90, il buio.

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